La posa senza nome

In questo tempo di pandemia molti allievi mi confidano di sentirsi instabili, storditi, rapiti da un malessere sordo … di sentirsi “senza punti di riferimento”.

La cosa non mi stupisce: le nostre abitudini quotidiane sono mutate, il contatto fisico è assolutamente limitato, siamo privati della libertà di movimento e le abitudini lavorative sono cambiate. Abbiamo dovuto abituarci ad una condizione di vita molto diversa dal solito e, se per un primo periodo abbiamo fatto affidamento al nostro innato senso di adattamento, con il prolungarsi del tempo hanno iniziato ad emergere delle risposte naturali e fisiologiche corrispondenti alla perdita dei consueti punti di riferimento, per cui ci sentiamo destabilizzati … un pochino persi.

Riflettendoci però potrebbe non essere una situazione negativa …

Ieri sera vedevo un film ispirato all’ultimo libro di Tiziano Terzani, in cui, a pochi giorni dalla sua morte terrena, racconta al figlio Fosco le sue storie di vita, le grandi intuizioni, le riflessioni e gli stati d’animo del momento.

Mi ha colpito una frase in cui afferma che i grandi regali che ha ricevuto dalla vita sono stati la fine del suo mestiere di giornalista e il cancro. Strano vero? Perché? Entrambi, insieme, gli hanno concesso di dare un taglio netto con il suo passato e soprattutto di smettere di identificarsi in un ruolo, in una determinata condizione, una immagine di sé stesso che avrebbe costituito il suo più grande punto di riferimento, la sua più grande “certezza”.

Si era reso conto che non voleva essere “il giornalista” ma voleva essere tantissime cose: un innamorato, un amante, un ribelle, e tanto altro; voleva essere tutto ciò che sentiva di esprimere nella totale libertà di un uomo. Aveva sentito che il ruolo lo avrebbe imprigionato, lo avrebbe condizionato fino alla fine dei suoi giorni.

Ognuno di noi possiede dei propri punti di riferimento in base al quale interpreta e vive la propria realtà. Oltre ai modelli familiari e sociali nei quali siamo cresciuti e dai quali abbiamo assimilato credenze e valori che hanno plasmato la nostra personalità, aggiungiamo costantemente dei nuovi punti di riferimento che servono a farci sentire sicuri, protetti, di appartenere a qualcosa. Siamo legati a delle certezze che ci fanno vedere la realtà in un modo molto definito, e quando la realtà è diversa da quel modo resistiamo e spesso soffriamo, perché non ci riconosciamo in tutto quello che è diverso da ciò che pensiamo sia giusto, dal nostro personale modo di vedere la vita.
La sofferenza, dunque, nasce da una resistenza alla realtà.

Tuttavia, ricollegandomi al pensiero di Terzani, sarebbe meraviglioso se riuscissimo a “lasciar andare” quei punti riferimento senza sentirci persi, non credi? Vorrebbe dire essere più liberi, esprimere davvero noi stessi, la natura più vera e profonda di ciò che siamo.

Le grandi vie iniziatiche, le arti marziali, lo yoga ma prima ancora le discipline dei mistici, ti portano proprio a questo cioè ad uscire da questo contenitore fatto di certezze, arrivando al non essere. Non essere, per essere veramente. Non essere vuol dire non essere attaccato, identificato e condizionato dalle proprie certezze ed essere finalmente libero. Libero di essere e di esprimersi in totale e assoluta gioia e felicità.

E questo cosa c’entra con lo yoga? C’entra tantissimo perché questi sono dei bellissimi concetti, bellissime idee, ma abbiamo tante volte sperimentato sulla nostra pelle che togliere, non avere queste certezze ci fa sentire instabili, inquieti, insoddisfatti.

Ecco, la pratica serve proprio a questo, la pratica serve a farci sentire, farci sentire vivi, a farci sentire nel nostro corpo, farci sentire nell’istante presente. A farci sentire a contatto con la terra, a percepire la terra sotto di noi che ci sostiene e ci nutre sempre. In quel momento, allora, non abbiamo più l’urgente bisogno di identificarci in altro perché sappiamo di essere, sappiamo di esistere, sappiamo di essere vivi. Non abbiamo paura di perdere quelle certezze perché sentiamo che la più grande certezza è li per noi, siamo noi stessi, è il nostro corpo, il nostro respiro, la vita in un istante. In quel momento siamo in grado di vedere le cose per quello che realmente sono, e non quello che ci aspettiamo di vedere, siamo anche più capaci di esprimerci liberamente e di fare quello che realmente sentiamo (chi pratica ha sicuramente sperimentato tante volte questa condizione).

La pratica dello yoga, dunque, mette in contatto l’ambizione dell’uomo alla libertà di essere con l’altra necessità impellente, ovvero quella di confinare questa libertà per sentirsi sicuri dentro uno spazio protetto. Lo yoga ci da la possibilità di togliere quel confinamento ma di sentirci ugualmente stabili, forti e presenti a noi stessi.

Ma ad una condizione: anche nella nostra pratica dovremmo eliminare l’identificazione nelle pose!

Spesso ci troviamo a praticare la posa che già conosciamo, quella che “dobbiamo eseguire”, quella che magari ricordiamo di aver già eseguito e pensiamo di doverla “rifare” nello stesso modo, o quella che immaginiamo e quindi cerchiamo di esprimere come la stiamo immaginando e non come la stiamo vivendo. Ma queste sono tutte proiezioni della mente che limitano e condizionano il valore stesso della pratica.

Al contrario, mi piace pensare all’idea di una pratica dove le pose non hanno nome, non hanno memoria. La posa senza nome: a mio giudizio l’asana è solo quella che si manifesta in quel momento, perché è proprio in quel momento che noi stiamo la vivendo, in quel momento il corpo ci sta parlando. Solo allora riusciremo a trarre dalla posa tutto il suo incredibile beneficio, ovvero ricordarci che stiamo li in quell’istante, che siamo mente corpo e anima integrati, l’uno nell’altro. In quel momento ci sentiremo in un contatto profondo con noi stessi e con la vita che ci darà la possibilità di essere davvero un po’ più liberi.